24-27 ottobre 2014 Cappella del Simonino Trento
“C’è un giuoco di indovinelli che si fa su una carta geografica. Uno dei giocatori chiede all’altro di trovare una data parola: il nome di una città, di un fiume, di uno stato o di un impero, insomma una qualsiasi parola che si trovi sulla superficie intricata e variopinta della carta. Un novizio nel giuoco, di solito, cerca di porre gli avversari in imbarazzo con nomi scritti a carattere più piccolo, ma quello più esperto sceglie le parole che si stendono a caratteri grandi da un’estremità all’altra della carta. Questi, come le insegne a caratteri cubitali, nelle strade, sfuggono all’osservazione, appunto perché sono eccessivamente evidenti. A questo punto la trascuratezza fisica è precisamente analoga alla disattenzione morale con la quale l’intelletto lascia passare inosservate quelle considerazioni che sono troppo palesi o troppo chiaramente evidenti”.
E.A.Poe – La lettera rubata
Il Museo Wunderkammer presenta un gioco di indovinelli su una carta geografica, le immagini e le parole dalla carta si proiettano nelle strade, eseguono un’abile manovra e fanno del gioco una riflessione dell’intelletto.
La mostra espone questo pensiero con un passaggio provvisorio in un luogo ad alto contenuto simbolico, sede di ritualità sociali legate a culti diversi e a manovre politiche che hanno ridisegnato la mappa e gli immaginari collettivi della città.
La nostra operazione nomina un’evidenza che si stende da un’estremità all’altra della carta geografica e ne suggerisce una lettura attraverso la collezione del museo composta da reperti urbani eterogenei, capaci di rappresentare ciò ci interessa mettere in luce. Gli esemplari selezionati presenti in mostra celano storie controverse, ‘storie minori’, la cui stessa presenza nella trama urbana costituisce un interrogativo sulla presunta narrazione ufficiale.
Ambiguità questa, che le opere degli artisti rappresentano mettendo in scena la macchina propagandistica del potere: la reinterpretazione delle macchine teatrali, l’origine dell’illuminotecnica, la musica liturgica proscritta dopo il Concilio Vaticano II, la composizione contemporanea evocatrice di dense stratificazioni di immaginari, la ritualità condivisa del consumo, cibo velenoso reso commestibile dal processo produttivo.
Nel gioco di indovinelli ciò che rischia di passare inosservato, la considerazione troppo palese, è che questo luogo rappresenta la supremazia assoluta degli immaginari costruiti dal potere, mette in evidenza la loro stratificazione, come un palinsesto il cui testo originario, cancellato e sostituito con altro, continua ad affiorare. Le sue stanze sono costruite su una roggia e sulla sinagoga della città. La prima stanza è stata una cappella cattolica, una delle tre stazioni di un itinerario devozionale percorso per centinaia di anni da pellegrini fino alla sua sconsacrazione ed alla trasformazione negli ultimi tempi in un negozio di antiquariato.
Sottratto agli sguardi, l’edificio attuale è vuoto e inutilizzato, congelato in una singolare forma d’essere, sospeso tra un non più essere a valore e un non esserlo ancora, nient’altro che la traccia di un’evidenza. La città sta tra i naturalia e gli artificialia più di qualsiasi altra opera d’arte, perché la forma della città è una somma infinita di esperienze differenti di chi usa un luogo, riguarda cioè anche tutte quelle cose che si possono apprendere solo vivendo concretamente un determinato fatto urbano. Il concetto stesso di fatto urbano dipende dal tipo di conoscenza di chi lo vive, è costruzione della materia e, nonostante questa materia, di qualcosa di differente.
Questo invisibile che concorre incontrollabile alla sua costruzione è ora compresso in un punto di fuga sul grande tavolo della rappresentazione, in una cartografia fatta di retoriche e persuasive immagini sociali che trasportano i luoghi e li congiungono. Immobile sta il soggetto di fronte all’esposizione dei fatti del centro storico elencati e descritti come in un erbario o in un dizionario; l’occhio rapace gli risparmia la tangibilità, il rapporto diretto e immediato con tutte le cose. Il potere gioca l’evidenza sulla carta geografica, sovrascrive a grandi caratteri, sapendo che non c’è modo più efficace di disfarsi effettivamente del passato, che convertire i monumenti e la storia non in cultura, ma in immagini turistiche. L’arte è sempre e ovunque nella città, la condizione è poterla usare. Il consumo alla base della società capitalistica è invece l’unica possibilità di relazione con oggetti che incorporano in sé la propria impossibilità d’uso.
Tutto diventa virtualmente possibile nella costruzione della città libera dagli stregoni, perché il valore d’esposizione slegato da quello d’uso è strumento totalizzante, non lascia spazio per altre interpretazioni. Riconoscere i caratteri di non controllabilità dello spazio urbano significa fare ciò che gli antichi facevano consacrando un luogo, creare ordini capaci di generare eresie.
Rappresentando e contestando allo stesso tempo, il museo tocca uno spazio emblematico del centro storico di Trento e lo rende pubblico per un tempo provvisorio, senza suggerirne riconversioni produttive. Il culto capitalista, che non può sperimentare l’apostasia, non può fare altro che “l’esperienza forse più disperata che sia data a ciascuno di fare: quella della perdita irrevocabile di ogni uso, dell’assoluta impossibilità di profanare”Agamben, Profanazioni.Wunderkammer Collezione di immaginari urbani offre alla città la sua prima mostra.
Per la prima volta il Museo Wunderkammer apre le proprie sale attraverso un’azione che vuole restituire alla città alcuni propri scorci e lo fa in una cornice normalmente inaccessibile al pubblico, la Cappella del Simonino. Cappella Salvadori fu un tempo sinagoga della città di Trento. La leggenda narra che il piccolo Simone, bambino nato nel quartiere, fosse stato misteriosamente catturato, torturato e quindi ucciso per mano di alcuni esponenti della comunità ebraica residente a Trento.
E’ la Pasqua del 1475. Da secoli sugli ebrei in Europa pendono accuse di «omicidio rituale» e l’antisemitismo dilagante prende presto piede anche nella città di Trento, dove lo stesso principe vescovo Giovanni Hinderbach si fa massimo portavoce dell’accusa. Una volta estorte le confessioni ad alcuni esponenti trentini della comunità ebraica, il principe vescovo chiede a gran voce la santificazione del bambino.
Tuttavia, solo nel 1582 il culto di San Simonino entra nel Martirologio e nel 1588 viene stabilita la festa solenne del santo in data 24 marzo. Il culto del piccolo Simone sarà abrogato solamente quattrocento anni dopo, nel 1965, e in questa occasione sarà revocata dai padri del Concilio Vaticano II ogni accusa di omicidio contro il popolo ebraico e vietata ogni forma di antisemitismo.
Nel frattempo, l’antica sinagoga diviene cappella intitolata proprio a San Simonino. Due anni dopo, nel 1967, la Consulta rabbinica italiana toglie alla città di Trento l’herem ha-qahal, ovvero la scomunica orale tramandata fin dai tempi a cui la vicenda risale.
foto di Pierluigi Cattani Faggion
video di Pol Astro